Sentieri in-interrotti / Open Day sabato 1 ottobre 2016 / Un percorso inedito alla Collezione di Deutsche Bank

Sentieri in-interrotti / Open Day sabato 1 ottobre 2016 / Un percorso inedito alla Collezione di Deutsche Bank

Il titolo dell’Open Day 2016 di Deutsche Bank prende spunto dal testo introduttivo al volume Holzwege (Sentieri interrotti), opera di svolta del filosofo tedesco Martin Heidegger, datata 1950. È la sua una ricerca di senso dell’essere, in riferimento all’esistenza umana attraverso una lettura di taglio fenomenologico.
Quello proposto per la giornata di sabato 1 ottobre è un cammino nella collezione dell’istituto bancario tedesco, che si dipana attraverso una trentina di opere realizzate con media diversi, dalla pittura all’installazione, dal collage alla fotografia, opere come sentieri di un bosco e ogni sentiero come cammino della ricerca umana. Heidegger scrive: “Nel bosco [Holz] ci sono sentieri [Wege] che, sovente ricoperti di erbe, si interrompono improvvisamente nel fitto. Si chiamano Holzwege. Ognuno di essi procede per suo conto, ma nel medesimo bosco. L’uno sembra sovente l’altro: ma sembra soltanto”.

La manifestazione di quest’anno si svolge nel grande edificio di Piazza del Calendario, in zona Bicocca a Milano, progettato negli anni Novanta del secolo scorso dall’architetto Gino Valle (1923-2003), nell’ambito dell’intervento di riqualificazione urbana di quella particolare area alla periferia nord-est della città operato da Vittorio Gregotti e associati.

In questa sede, trova luogo la metafora del bosco, dove le opere, come sentieri solo apparentemente interrotti, in tal senso Sentieri in-interrotti, attendono di essere ritrovate e, per certi versi, scoperte. Durante il cammino il visitatore sarà accompagnato da guide specializzate.

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Per la Deutsche Bank, Valle realizza la sua più alta sintesi dei temi affrontati nell’ambito dell’architettura civile, in continuità con le esperienze, italiane e tedesche del Novecento, delle grandi architetture urbane, delle istituzioni e del terziario. Sette piani per un totale di 33.000 metri quadrati di superficie calpestabile, l’edificio “a corte lombarda”, aperto a nord e a ovest per instaurare un rapporto dialettico con la vicina collina dei ciliegi (sulla quale l’edificio si affaccia), si pone come una porta tra la città e il quartiere Bicocca. Un grande volume spezzato, attraverso le sue articolate geometrie gioca sulle variazioni luminose e percettive che vengono a crearsi sui suoi elementi, caratterizzati dagli ultimi due piani sbalzati in modo ardito verso il cortile interno, da finestre angolari e finestre continue sulle facciate che ne sgravano il peso, dalla consistenza materica, nell’uso di marmo lucido nero nel basamento e di marmo grigio sulle facciate.
Nell’esplorare gli interni dell’edificio, ci si rende conto della particolare attenzione progettuale agli ambienti, che per le loro caratteristiche ospitano dal 2007 parte della sezione italiana di una delle più importanti Collezioni aziendali a livello internazionale di arte contemporanea, in maggioranza opere su carta e fotografie, esposta in 900 sedi dell’Istituto in tutto il mondo. Nel 2012 la parte milanese della collezione è stata ampliata con una seconda sezione allestita presso la sede di via Turati 27, e nel 2013 con una terza sezione in via Santi Apostoli a Roma. Oggi le tre sezioni italiane contano insieme oltre 500 opere, tra cui alcune appositamente commissionate dall’Istituto ad artisti italiani.

Il programma artistico di Deutsche Bank può essere riassunto in due parole: Art Works, opere d’arte, certo, ma anche arte che lavora, arte che funziona. Le opere, infatti, sono poste in dialogo diretto e continuo non solo con i lavoratori della banca, ma anche con i clienti della stessa e con i visitatori che ogni anno varcano i confini dell’istituto di credito per visitarne la collezione. In tutto questo è anche una chiara responsabilità sociale, in cui l’arte è momento portante del pensiero aziendale. Quello della banca è un progetto di arte diffusa, di cui i lavori Site Specific ne sono una chiara quanto evidente testimonianza.

Un percorso inedito alla Collezione di Deutsche Bank

All’entrata dell’edificio il visitatore è accolto da X-Flag del 2007 di Patrick Tuttofuoco (1974). Un grande lampadario al neon, che, a intermittenza, si accende di rosso e di bianco, come un vessillo dell’arte contemporanea. La X è l’ignoto, la zona libera in cui chi guarda può fare viaggiare liberamente il proprio pensiero.

Il lavoro di Alberto Garutti (1948), Cosa succede nelle stanze quando gli uomini se ne vanno? Opera dedicata a tutti coloro che qui si incontreranno del 2007 è costituito da nove semplici panche bianche, su cui è stata posta una vernice fosforescente. Il focus dell’opera è il concetto di comunicazione: l’artista crea occasioni affinché le persone possano mettersi in relazione tra loro. Chi entra nella banca e si siede sulle panche può fare degli incontri, può aprirsi al mondo in una dimensione di semplice scambio di esperienze. Quando di sera le luci della banca si spengono, inoltre, le panche si illuminano acquistando una vita propria.

Una delle tante  One is as good as the other (1999-2007) di Lara Favaretto (1973) è una riflessione sull’autonomia dell’arte e sulla sua eventuale dipendenza da condizionamenti esterni. Le persone fotografate sono coristi, ritratti durante le prove settimanali del loro coro, che l’artista ha decontestualizzato, ritratto in uno spazio neutro e reinserito in scala gigante in un ambiente collettivo, creando una relazione quotidiana con i dipendenti diDeutsche Bank che diventano così parte attiva dell’opera.

Onde marine stilizzate, dipinte sui muri di una zona del primo piano del grande edificio,costituiscono Mare nostrum (2004-2007) di Luca Vitone (1964). Sulla parete è stata, inoltre, creata una linea con la sagoma del nostro Paese, sulla quale sono state appese delle cartoline con paesaggi marini facilmente riconoscibili. Il lavoro presenta un chiaro riferimento all’attualità politica. Il nome gli deriva dal termine che gli antichi davano al Mediterraneo e che è stato, quindi, mutuato da una missione di salvataggio in mare dei migranti tra il 2013 e il 2014, attuata dalla Marina e dall’Aeronautica Militare.

Nel cortile dell’edificio Roberta Silva (1971) ha allestito nel 2006, una piccola giungla tropicale, Piccola Giungla Concreta-Tesoro, una sorta di salto in un mondo altro, rispetto a quello della periferia milanese. Un rifugio che può divenire piacevole pausa onirica per gli impiegati dell’azienda.

Molte delle opere facenti parte della collezione italiana della banca contengono chiari riferimenti al Bel Paese, alla nostra cultura, alle nostre abitudini. Così nell’opera dell’artista tedesco Olaf Metzel (1952), una fotografia di grandi dimensioni che riproduce una tipica situazione marina, una spiaggia dell’Adriatico, quella marchigiana di Marotta, con un calciobalilla. C’è il sole, le ombre giocano un ruolo portante, ma non si percepiscono presenze umane.

Un altro artista tedesco Matthias Hoch (1958) è affascinato dalla Roma degli edifici moderni, quelli costruiti negli anni Sessanta, nei pressi della tangenziale est della città come in Roma #19, una fotografia in cui l’oggetto architettonico assume le sembianze di una scultura.

Si trova in una zona attigua alla sede genovese di Deutsche Bank, la via Albertazzi, soggetto della foto del 1997 di Ralph Müller (1961). In entrambe le sue immagini presenti in collezione è come se lo spettatore vedesse il paesaggio attraverso un’uscita, una sorta di grotta: dal buio alla luce dove quello che potrebbe rivelarsi stupefacente è, in realtà, la normalità.

Sono dettagli domestici di interni veneziani (2001) quelli di Andrea Ostermeyer (1961). Sopra ogni foto vi è come un ricamo, fatto con la macchinada cucire. Così l’artista tedesca, che ha utilizzato più volte la stoffa per il proprio lavoro, dona un’ulteriore valenza all’aspetto puramente documentario della fotografia, attraverso un segno, una traccia, una decorazione realizzata a zig zag con il filo rosso.

Le cave di Carrara (2006) sono un luogo fondamentale per la storia dell’arte italiana, tanti scultori le hanno frequentate e le frequentano, uno fra tutti Michelangelo. Sono esse il soggetto del lavoro di Petra Wunderlich (1954), che ha studiato alla Kunstakademie di Düsseldorf con i Becher. La sua ricerca è puntuale, spesso rivolta a luoghi marginali come le cave, i depositi. Nelle sue immagini, in bianco e nero, l’uso sapiente della luce sottolinea la potenza della forma e la tridimensionalità della pietra.

Quelli di Gaia Fugazza (1985) sono collages di tema architettonico, realizzati con parti di edifici modernisti, con un linguaggio che rimanda a quello delle avanguardie storiche.

È un omaggio a Luigi Tenco, morto suicida a 29 anni, quello di Lorenzo Scotto di Luzio (1972), che sulle copertine dei dischi, nello stile dell’epoca, interpreta la parte del cantante, vera e propria icona del rinnovamento musicale italiano. Pare che Tenco sia arrivato al folle gesto per non avere vinto il Festival di Sanremo, nel 1967, con la canzone  Ciao amore, ciao. Il cantante piemontese, innovatore della tradizione canora italiana, fu compreso, infatti, come spesso accade, solo dopo la sua morte.

La Fiat Panda è un simbolo dell’Italia nel mondo. È qui soggetto della fotografia di Simon Starling, (1967), 24 h Tangenziale del 2006. Vi è un chiaro collegamento con Torino, la città della grande industria automobilistica. L’artista inglese si serve con ironia di rimandi tecnici e tecnologici. Quella che viene presentata non è la realtà ma un suo sovvertimento, che la rende a maggior ragione interessante. Starling stesso ha dichiarato: “Forse l’idea è che l’artista non dovrebbe mai riconciliarsi con il proprio vocabolario, perché in quel momento il suo lavoro muore”.

Luoghi italiani sono ancora protagonisti delle Settanta cartoline da cui è stato eliminato il francobollo, l’opera del 1999 di Jonathan Monk (1969). Artista, collezionista onnivoro, l’inglese dà vita, di volta in volta, a operazioni di matrice concettuale in cui si vengono a creare dei cortocircuiti tra arte e vita, sotto forma di omaggi alterati o di parodie affettuose. Come in questo caso: la cartolina è, infatti, oggetto della memoria, scelto con cura fra un immaginario italico dei luoghi del cuore. Il suo è un modo di rimettere al mondo il mondo, come ha scritto il critico Luca Cerizza in un ritratto a lui dedicato. Le cartoline tagliate nella zona del francobollo sono gli avanzi del collezionismo.

Mr and Mrs Italy 96 del 1996 è il titolo del lavoro di Tobias Rehberger (1966), vincitore del Leone d’Oro come  miglior artista alla Biennale di Venezia del 2009. Si tratta di opere su carta ispirate al mondo della moda, piccoli disegni su fondo bianco che rimandano ai modellini disegnati dagli stilisti. Nella sua ricerca è una sorta di giocosità che trasforma l’opera d’arte in un oggetto che ha funzioni che vanno ben oltre il suo presunto valore e significato artistico.

La ricerca di Massimo Bartolini (1962) è incentrata sull’arricchimento delle nostre ipotesi percettive. I suoi sono paesaggi mentali, come la grande carta del 2006, presente in collezione, in cui sono rilievi e piccoli alberi, percorsi complessi che conducono chi guarda in un mondo dove c’è sempre qualcosa di riconoscibile. L’opera di grandi dimensioni è costituita da un foglio di carta che è stato piegato e spiegato. Nella zona di incontro delle pieghe l’artista ha disegnato degli alberelli: la vita nasce dove si creano gli incontri.

Sono costruzioni particolari, sospese nel vuoto, Still Life privi di un rimando immediato alla realtà. Il punto di partenza di questa serie di lavori di Pierpaolo Campanini (1964) è la caduta di una meteorite, una grande massa di circa un metro, che si è frantumata nel 1824 sul suolo di Renazzo, nei pressi di Cento, la cittadina natale dell’artista, sulla quale grava ancora un’aura di mistero, e frammenti, calchi, dettagli sono quelli proposti nelle fotografie dell’artista.

Dancing in Emilia è un curioso lavoro di Gabriele Basilico (1944-2013), realizzato alla fine degli anni Settanta, su committenza della rivista di design “Modo”: un viaggio per certi versi ironico nel popolare mondo del ballo emiliano che assai si discosta dai lavori di carattere architettonico del grande maestro, che siamo abituati a vedere.

Ma Venezia è solo a Venezia? Pare una domanda impertinente, ma così non è, almeno stando all’immagine di Armin Linke (1966), che ci porta nell’atmosfera disneyana delVenetian Hotel & Casino Las Vegas, che offre ai suoi clienti un’artificiale atmosfera riassuntiva della città lagunare.

Tra le opere più importanti presenti nella collezione, da un punto di vista storico, è il lavoro Pietà di Michelangelo del 1974 della poetessa visuale e bodyartist, Ketty La Rocca (1938-1976). È un’opera di matrice concettuale, che fa parte del ciclo delle Riduzioni, in cui le immagini vengono ricondotte, per graduale trasfigurazione, a segni astratti.

Potremmo percepire un’eco, un riferimento al lavoro di La Rocca nelle opere di Giovanni De Lazzari (1977), in cui sono oggetti del quotidiano, colti in un’atmosfera sospesa e surreale.

Un riferimento alla vita di tutti i giorni, in particolare alla sua, è nei teatrini di Moira Ricci (1977). Sono delle scatole in cui l’artista toscana presenta dei paesaggi, delle stanze della memoria, realizzati con fotografie del suo archivio personale e con ritagli di riviste illustrate. Titolo è Località Collecchio (2001) e protagonista è la sua casa di famiglia. Mamma in macchina fa parte del più ampio lavoro (2004-2009) dal titolo 20.12.5310.08.04. Sono le date entro le quali è racchiusa la parabola vitale della madre dell’artista. Il richiamo è a Roland Barthes e al suo imprescindibile studio La camera chiara, uno dei principali apporti teorici sulla fotografia. Il testo ha una dimensione autobiografica: la fotografia evoca in ciascuno di noi dei sentimenti e delle disposizioni affettive. Barthes guardava, infatti, una serie di vecchie foto della madre morta, senza riuscire a ritrovarla. Il lavoro di Moira Ricci è una ricostruzione di storie, che hanno per protagoniste l’artista e la giovane madre, realizzate con l’ausilio di Photoshop. Si mette così in crisi la certezza che la fotografia sia traccia, testimonianza: con il digitale le cose cambiano ed è così possibile ribaltare il concetto che è stato alla base della fotografia per oltre 150 anni. In A Lidiput (2003) l’artista appare come un gigante, che fuoriesce dalla sabbia in una spiaggia, quella delle zone in cui è nata, popolata da piccoli personaggi. Viene così a crearsi un dialogo con la sua terra di origine.

È una memoria collettiva quella presente nel lavoro di Andrea Salvino (1969), la cui ricerca, in questo caso realizzata con il disegno, parte dalla storia, dalla cronaca, dal cinema. Il lavoro dell’artista romano Loin du Vietnam (2007) potrebbe, infatti, essere inteso come una pagina di storia non ufficiale, scritta per immagini, in cui il riferimento è al titolo di un documentario militante, firmato da alcuni importanti personaggi del mondo del cinema e della fotografia nel 1967.

Frammenti di realtà più o meno autobiografica sono quelli che danno vita ai collage di Marcello Maloberti (1966). Ritagli, pezzi di fotografie in cui sono rimandi a una quotidianità complessa come in un procedimento di natura mnemonica. Il collage di grandi dimensioni è un esplicito riferimento all’opera fotografica Circus (Venezia, 2004). Si tratta di un ciclo di performance in città diverse in cui è particolarmente forte il duplice rapporto tra la realtà viva, imprendibile di chi entra nella tenda di specchietti, gioca e balla, e le immagini che si fissano nella fotografia. Maloberti ha raccontato: “Una festa che ha coinvolto tutti gli abitanti. La tenda di specchi, la musica, le macchine con le luci pulsanti sembravano appartenere a quella piazza. Sono venuti tutti, proprio tutti. Alcuni sono entrati nella fontana, per rinfrescarsi. Mi è piaciuta molto la spontaneità con la quale hanno invaso questa piazza bellissima nella sua rovina, nella sua tensione e nella sua eccezionale architettura, una specie di anfiteatro dove le luci, la musica e i riflessi degli specchi si inserivano naturalmente”.

Landscapes del 2006 di Nico Vascellari (1976), artista poliedrico, proveniente dal mondo della musica Punk, sono dei collages con ritagli di orecchie, organo dell’ascolto. L’artista veneto si sente un “attivista al livello del sottosuolo”. L’orecchio diviene parte potente di un paesaggio mentale, in cui il richiamo – chissà se voluto? – potrebbe essere anche ad Adolfo Wildt.

Anche Federica Palmarin (1977) utilizza per la sua ricerca il cinema e la fotografia. Qui sono delle immagini fotografiche dalla serie Believers, ritratti di persone, macchine imperfette, delle quali è sottolineato l’aspetto sacrale. La fotografa veneziana ha dichiarato che vorrebbe che le sue fotografie fossero dei monumenti dei soggetti rappresentati. Il suo è un taglio antropologico, che esplora la teatralizzazione della realtà, in cui il confine tra realtà fisica e realtà psichica è labile.

Angela Madesani